Una questione di metodo
Entrati come amministratori indipendenti, oggi i nuovi soci controllano il 100 per cento di Schmid. Paolo Ciccarelli, presidente, spiega come è cambiata l’azienda, dove vuole arrivare e soprattutto come
“Discorso sul metodo” è una delle opere più note di Cartesio, il filosofo francese noto per l’espressione “cogito, ergo sum”. E “metodo” è una delle parole più ricorrenti in questa chiacchierata con Paolo Ciccarelli, azionista e presidente di Schmid, storico converter italiano: soprattutto per provare a spiegare come un manager proveniente dalla finanza (Borsa Italiana, Barclays, fra le altre) possa assumere la guida di un’azienda del settore moda. «La parola metodo – spiega Ciccarelli –dice quasi tutto». Ma di parole importanti, lo vedremo, ce ne sono anche altre.
Che ci fa lei, con i suoi trascorsi professionali, a capo di un’azienda che come clienti ha le più importanti firme della moda?
«Bella domanda. In questa azienda sono entrato nel 2011, quando la proprietà era di alcuni fondi di private equity, come consulente, per occuparmi degli aspetti finanziari e organizzativi che mi competevano strettamente; in quell’occasione ho conosciuto altri due grandi professionisti, già presenti come amministratori indipendenti, con cui è nata una collaborazione sorretta dalla fiducia reciproca e dalla forte complementarità, non solo professionale ma anche umana».
Gli altri due consiglieri erano Mario Boselli, imprenditore tessile e presidente della Camera della Moda, e Giorgio Iacobone, un noto avvocato milanese: e a un certo punto siete diventati anche azionisti.
«Nel 2013, lavorando sempre più in profondità sull’azienda, mi sono accorto che i problemi non erano risolti e occorreva una profonda ristrutturazione. Tuttavia i vecchi soci non erano più interessati all’azienda e quindi ci si è prospettata la possibilità di acquisire la maggioranza del capitale: Mario Boselli e Giorgio Iacobone hanno accettato la mia proposta a patto che io assumessi la guida operativa dell’azienda come presidente e amministratore delegato, e così è andata».
Un bel salto triplo, da consulente a manager e poi azionista.
«È vero, eravamo tre professionisti, avremmo potuto fare scelte molto diverse: ma non nego che, oltre al piacere di lavorare insieme, ci sia stato anche un elemento molto forte di responsabilità. Eravamo di fronte a una bella azienda italiana, un pezzo di economia reale, che poteva chiudere oppure continuare la sua storia. Abbiamo corso il rischio».
Qual era il problema principale di quella Schmid?
«Mancava managerialità, mancava il metodo. I processi interni si erano sgretolati nel tempo. E anche l’immagine commerciale, un tempo indiscussa, era sbiadita. Il mio lavoro è stato ricostruire una gestione razionale, un sistema di monitoraggio efficiente che ci dicesse in ogni momento come stavamo andando. E, soprattutto, tornare a parlare con i clienti, presentando loro un mix attraente di prodotto, servizio e prezzo. Sono stati anni di lavoro “sporco”, poco visibile, di macchina e di back office, che però sono alla base di quello che è successo poi. Metodo e rigore sono le parole chiave di questa prima fase».
E qual è stata la fatica più grande?
«Spiace dirlo, ma è stata la lotta contro il sistema creditizio e normativo. Tu rischi del tuo, metti energie e capitali per salvare un’azienda, e il sistema ti rallenta, ti fa girare in tondo, ti fa impazzire. Non dico che ci sia un dolo, è piuttosto incapacità: da un lato i soggetti che possono decidere le sorti della tua azienda non hanno la visione di come funziona un’impresa; dall’altro le norme sono inutilmente complicate».
Vediamola in positivo, allora: quali sono state le maggiori soddisfazioni di questo periodo?
«Innanzitutto vedere che le cose si dispongono secondo il disegno che hai concepito e che man mano si realizza. Verrebbe da usare la metafora del puzzle, ma è sbagliata: il puzzle ha due dimensioni ed è predefinito, mentre qui tutto si muove rapidamente, cambia, ha più dimensioni. E poi le persone: è bellissimo lavorare con gli altri e vedere che le persone intelligenti, aperte, curiose, sposano il progetto e ci lavorano con vero coinvolgimento. Sono loro l’ingrediente decisivo, il lievito».
Resta una curiosità: come si è regolato con il prodotto, così distante dal suo retroterra professionale?
«Mi sono fidato. Innanzitutto avevo il privilegio di avere in squadra un’autorità come il cavalier Boselli. Poi ho cercato, ho tenuto la mente aperta, il che mi ha permesso di trovare collaboratori e consulenti esterni che avessero le competenze giuste. E ho anche sbagliato, ci tengo a dirlo: abbiamo sbagliato una collezione, la scelta di alcuni consulenti, alcune scelte di comunicazione. L’errore non va mai negato: anzi, se lo accetti e lo trasformi in una lezione è fondamentale. La mia scuola di vita sono stati i cavalli: se sbagli, paghi; ma se capisci dove hai sbagliato, migliori. E la colpa o il merito sono sempre tuoi, quasi mai del cavallo, che è sempre un partner affidabile e silenzioso».
Veniamo a oggi. A che punto siamo?
«La Schmid sta cambiando pelle, sta passando dall’essere un’azienda che fornisce tessuti a chi glieli chiede a una che propone, interpreta le tendenze, collabora con i suoi clienti; che non aspetta l’ordine ma lo co-costruisce, se si può dire così. Clienti, ricordiamolo, che sono le più grandi firme della moda, esigenti e selettivi. A che punto siamo? Stiamo certamente andando nella direzione giusta, ma non ancora alla velocità giusta: i dati al 30 settembre ci dicono che il fatturato è in crescita rispetto allo scorso anno e che abbiamo acquisito sia in Italia sia all’estero tanti nuovi clienti, con cui ora vogliamo instaurare una relazione continuativa. Ma ci dicono anche che la concorrenza esiste ed è molto attiva: si concentra soprattutto in alcune zone meno interessate alla qualità e all’innovazione e più al prezzo, ma comunque ci toglie ricavi e dobbiamo tenerne conto. Da settembre sono iniziate le vendite della collezione primavera estate 2016 e le campionature per l’autunno/inverno 2016-2017. Entrambe le stagioni sembrano essere andate molto bene: ma come le corse si vincono sul palo, i risultati si vedono a fine anno».
Per il made in Italy è un buon momento: merito dell’euro debole, ma anche di un orgoglio nazionale ritrovato. Quanto conta l’export per Schmid?
«Moltissimo. Il nostro obiettivo è di vendere all’estero, e infatti siamo presenti a manifestazioni in Inghilterra, Stati Uniti, Francia e Spagna, e di vendere agli stilisti italiani che a loro volta vendono all’estero. Questo, naturalmente, alza ancora l’asticella perché impone di essere ancora più attenti alla qualità del prodotto, alla qualità del servizio e ai trend globali. Ma abbiamo le idee abbastanza chiare e siamo pronti alla sfida».
Per finire, un accenno alle questioni societarie: con la fine di settembre, i tre nuovi soci detengono il 100 per cento della società. Si apre ufficialmente una fase nuova: con che obiettivi?
«Recentemente, dopo che già possedevamo oltre il 70 per cento, abbiamo acquisito la totalità delle quote. Ora ci aspettiamo un anno, il 2016, dedicato a proseguire nella crescita interna, consolidando la leadership nazionale; nei due anni successivi immaginiamo di svilupparci anche per linee esterne, attraverso qualche acquisizione che aumenti la massa critica e trasformi la Schmid in un punto di riferimento anche a livello internazionale. E poi, magari, una quotazione in Borsa. Un ritorno alla mia vecchia passione? In effetti… ».